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Influenza, Simg: siamo sopra soglia epidemica e trend è in crescita

Medici famiglia: vaccino raccomandato a diabetici e donne in gravidanza

I tassi di diffusione dell’influenza sono in crescita, con il picco previsto prima di Natale. Per questo i medici di famiglia della Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie raccomandano di accelerare i tempi ed estendere la copertura delle vaccinazioni antinfluenzali in corso, con particolare attenzione ai soggetti fragili. Questo l’appello lanciato dal 40° Congresso Nazionale SIMG, che è in corso a Firenze, e durerà fino al 25 novembre. “I dati registrati nell’ultima settimana, quella del 17 novembre, hanno riportato circa 400mila persone colpite dal virus influenzale, un’incidenza del 6,7 per mille nella popolazione generale – sottolinea Alessandro Rossi, Presidente eletto SIMG – al momento la diffusione dell’influenza è leggermente superiore alla soglia epidemica, ma si registra un andamento in crescita, con la curva che molto probabilmente proseguirà nelle prossime settimane, fino a raggiungere il picco poco prima di natale”.

Da metà ottobre è attiva la campagna vaccinale in tutte le regioni italiane. “Soprattutto nei soggetti fragili, si devono raggiungere delle coperture maggiori rispetto allo scorso anno, quando il tasso di copertura si è attestato al 56%, ben lontano dal 75% auspicabile e dal 95% ottimale – evidenzia Alessandro Rossi – ogni punto di copertura in più, come confermano i dati della letteratura, corrisponde a un abbassamento diretto della mortalità e dell’ospedalizzazione, che colpiscono soprattutto i pazienti anziani e i più fragili, per i quali la vaccinazione non è più solo consigliata, ma raccomandata. Tra questi vi sono due popolazioni a cui bisogna prestare particolare attenzione: i pazienti diabetici di qualsiasi età, in quanto il diabete per le sue caratteristiche espone maggiormente alle conseguenze più nefaste del virus influenzale, e le donne in gravidanza a qualsiasi settimana, poiché il vaccino è sicuro e protegge sia la donna che il feto. Non va trascurata l’indicazione della vaccinazione a tutto il resto della popolazione giovane e adulta per proteggere sia se stessi che la comunità e i contatti diretti di queste persone. La SIMG ha predisposto strumenti formativi e informativi per favorire le somministrazioni dei vaccini, specificando l’importanza di usarne due specifiche tipologie sulle categorie più fragili, quello adiuvato e quello ad alto dosaggio, che si sono rivelati maggiormente efficaci nel prevenire mortalità e ospedalizzazione”. “La campagna vaccinale contro l’influenza, inoltre – conclude Rossi – rappresenta un fattore in grado di promuovere anche gli altri vaccini per l’adulto, dal booster aggiornato contro le più recenti varianti del Covid-19, da rilanciare fortemente in questa fase, a quelli contro Pneumococco e Herpes Zoster. Sono tutti somministrabili nel corso della stessa seduta del vaccino antinfluenzale”.

Fonte: askanews.it

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Nati prematuri: SINPIA, in Italia 1 bambino su 10 nasce pretermine

Rischio di sviluppare deficit sensoriali

Oggi in Italia la percentuale dei bambini nati pretermine varia tra il 7 e il 10%: ogni anno nel nostro Paese nascono prima del termine tra i 25.000 e i 30.000 neonati, circa 1 bambino su 10, la maggior parte non gravemente prematuri (i cosiddetti “late preterm”), mentre sono circa 0.9-1% i nati “molto” o “estremamente” pretermine. Domani 17 novembre ricorre, come ogni anno, la Giornata Mondiale della Prematurità, World Prematurity Day, istituita nel 2008 e riconosciuta dal Parlamento europeo grazie all’impegno della European Foundation for the Care of Newborn Infants (EFCNI), finalizzata a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla nascita pretermine. In occasione della Giornata Mondiale della Prematurità, la SINPIA, Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, sottolinea l’importanza dell’intervento precoce per i bambini a rischio di sviluppare disturbi del neurosviluppo. “La prematurità – spiega Elisa Fazzi, Presidente SINPIA, Direttore della U.O. Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza ASST Spedali Civili e Università di Brescia – è una condizione che può comportare un aumento del rischio di sviluppare oltre alla Paralisi cerebrale infantile spesso associata a deficit sensoriali, in particolare visivi e cognitivi di varia entità, disturbi del neurosviluppo, tra cui disturbi dell’apprendimento, del linguaggio e del comportamento, fino ai quadri di disturbo dello spettro autistico o di deficit di attenzione e/o iperattività spesso in comorbidità. L’intervento precoce, che si fonda su strategie di intervento centrate sulla famiglia e sull’arricchimento ambientale, può essere iniziato già nelle prime settimane di vita e può includere interventi di tipo riabilitativo, ma anche di sostegno alla genitorialità con interventi educativi, psicologici e sociali”.

Notevoli passi avanti sono stati compiuti dalla scienza e, oggi, anche per i bambini che nascono prima delle 27-28 settimane la possibilità di sopravvivere è alta, superiore al 70%, sebbene all’aumento della sopravvivenza non corrisponda anche una simile drastica diminuzione delle problematiche presentate a distanza di anni. L’incidenza dei disturbi del neurosviluppo nei bambini nati pretermine è stimata intorno al 20%, mentre la paralisi cerebrale infantile colpisce circa il 10% dei neonati con prematurità di grado elevato, e rappresenta la causa più frequente di disabilità motoria nei bambini. “E facile intuire – interviene Simona Orcesi, professore associato di Neuropsichiatria Infantile presso l’Università di Pavia e membro del Consiglio Direttivo della SINPIA – che più è grave la prematurità, con età gestazionale e peso neonatale molto bassi, maggiormente diminuiscono le possibilità di sopravvivenza mentre aumentano le complicanze, sebbene negli ultimi decenni abbiamo potuto assistere ad un significativo miglioramento delle tecniche ostetriche e delle cure intensive neonatali. Nell’evoluzione neuropsichica dei gravi pretermine sono però ancora presenti fragilità cognitive e comportamentali, difficoltà di regolazione delle emozioni, quadri clinici che rientrano nei disturbi del neurosviluppo che a volte si evidenziano più avanti, in età scolare. Si tratta di problemi spesso considerati più lievi che invece possono compromettere la qualità di vita dei bambini e delle famiglie”.

Le nuove tecniche di studio con Risonanza Magnetica cerebrale stanno dimostrando sempre di più che nascere pretermine può compromettere la maturazione cerebrale, soprattutto per i più prematuri. L’altra faccia della medaglia in questo contesto, però, è che la maturazione cerebrale al di fuori dell’ambiente intrauterino è anche facilmente modificabile grazie alle caratteristiche di plasticità del sistema nervoso in via di sviluppo, cioè alla capacità del sistema nervoso di riorganizzarsi in modo funzionale in risposta a cambiamenti e ad esperienze ambientali.

“Ogni influsso ambientale esterno – aggiunge Elisa Fazzi – si inserisce in un processo di scambio reciproco continuo tra afferenze ambientali e modificabilità delle reti neurali e contribuisce a plasmare l’encefalo stesso. Negli ultimi decenni la ricerca scientifica ha confermato che l’ambiente può influire molto e positivamente sulla plasticità cerebrale: rappresenta un “farmaco” potente che abbiamo a disposizione fin dai primi giorni di vita di un bambino pretermine e può influenzare positivamente il suo sviluppo in condizioni di fragilità, agendo, ad esempio, attraverso meccanismi epigenetici, regolando l’espressione genica ed esercitando un ruolo protettivo”.

Fonte: askanews.it

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Antibiotico resistenza, 1 italiano su 2 non ne ha mai sentito parlare

Ricerca Iqvia per Reckitt

Un italiano su due non ha mai sentito parlare di antibiotico resistenza e il 46% di essi utilizzerebbe gli antibiotici anche per infezioni virali. Inoltre, il 74% dei rispondenti afferma di aver utilizzato antibiotici negli ultimi dodici mesi, e di questi ben il 56% lo ha fatto per infezioni del tratto respiratorio superiore, come mal di gola/faringite, laringite e tonsillite. Questa è la fotografia che emerge dalla ricerca sull’utilizzo degli antibiotici da parte degli italiani e alla loro conoscenza e sensibilità sull’antibiotico-resistenza svolta da IQVIA, società a livello globale nell’elaborazione ed analisi dei dati in ambito sanitario, in collaborazione con Reckitt, una delle società multinazionali nell’ambito dei prodotti OTC per la cura del mal di gola. La ricerca, condotta su un campione di oltre 1.300 individui, rappresentativo della popolazione italiana adulta, e presentata in occasione della Settimana Mondiale sull’Uso Consapevole degli Antibiotici dal 18 al 24 novembre 2023, conferma la necessità di impegno in questo ambito, in cui Reckitt è già attiva a livello globale e pronta a definirsi con concrete progettualità anche in Italia. Il fenomeno dell’antibiotico-resistenza è infatti oggi poco conosciuto dai cittadini italiani, nonostante i dati siano molto allarmanti: annualmente in Italia muoiono circa 11.000 persone per infezioni che non possono essere curate a causa della resistenza agli antibiotici, mentre a livello mondiale, rispetto a questo problema, si stimano 10 milioni di morti ogni anno entro il 2050.

L’uso inappropriato di un antibiotico può nascere da una scarsa conoscenza circa le modalità corrette di utilizzo di quest’ultimo e dall’assenza di una valutazione medica. Per curare le comuni infezioni delle vie respiratorie superiori, quelle di origine virale come ad esempio raffreddore, influenza e, nella maggior parte dei casi il mal di gola, gli antibiotici molto spesso non sono necessari, proprio perché si tratta di infezioni sostenute da virus, contro i quali gli antibiotici non esplicano alcun effetto terapeutico. Utilizzare frequentemente gli antibiotici, per l’appunto, porta a sviluppare un adattamento di alcuni microrganismi che acquisiscono la capacità di sopravvivere, resistere e, perfino, proliferare in presenza di una concentrazione di un agente antibatterico, generalmente sufficiente ad inibire o uccidere microrganismi della stessa specie, rendendo, così, l’azione dell’antibiotico inefficace. Parlando di mal di gola, ad esempio, anche AIFA – Agenzia Italiana del Farmaco – ha ormai accertato che in 9 casi su 10il mal di gola è di origine virale e non batterica, e quindi non necessita dell’assunzione dell’antibiotico per la sua cura. Ciò nonostante, in Italia, il mal di gola rappresenta, tra le patologie elencate, quella con la più alta percentuale di utilizzo inappropriato di antibiotici, come evidenziato nel rapporto nazionale del 2021 redatto proprio dall’AIFA sull’utilizzo degli antibiotici in Italia. «Il mal di gola costituisce uno dei motivi più comuni per cui i pazienti si rivolgono al proprio medico e può avere un impatto negativo sostanziale sulla vita quotidiana di un individuo» sostiene Aurelio Sessa, specialista in medicina interna. «Sebbene doloroso e autolimitante, in molti casi si risolve entro 3-7 giorni, anche spontaneamente. Tuttavia, il disagio causato dai sintomi spinge i pazienti verso la richiesta e l’uso inappropriato degli antibiotici, fattore che contribuisce al crescente problema della resistenza antibiotica. Per il trattamento sintomatico del mal di gola possono risultare utili le formulazioni di FANS da somministrare a livello locale, come ad esempio quelle a base di flurbiprofene, poiché Il sollievo sintomatico conseguente all’applicazione locale di FANS rappresenterebbe quindi un fattore rilevante per i pazienti, in grado così di ridurre l’uso inappropriato degli antibiotici» conclude Sessa. Dall’indagine, condotta da IQVIA per Reckitt, emerge, inoltre, come il medico di medicina generale continui ad essere il punto di riferimento per il paziente nella ricerca di informazioni (53%). Detto ciò, però, preoccupa il dato secondo cui 1 italiano su 2 non ha mai sentito parlare di antibiotico-resistenza e ancor di più, tra coloro che dichiarano di non averne sentito parlare, il 49% la definisce erroneamente e semplicemente come inefficacia dell’antibiotico, mentre il 45% pensa che questo fenomeno non possa diventare un vero e proprio problema. Ad aggravare ulteriormente la situazione, poi, ci sono le percentuali legate alle modalità di utilizzo degli antibiotici: il 41% non collega la resistenza all’antibiotico alla sua assunzione senza una reale necessità, il 49% è propenso ad utilizzare un antibiotico che ha già a disposizione a casa senza una nuova prescrizione e il 46% utilizzerebbe erroneamente antibiotici anche per curare infezioni virali, come l’influenza, senza approfondire con il medico.

 

Fonte: askanews.it

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Psichiatria, metà degli operatori subisce violenza in reparto

Indagine Coordinamento Nazionale Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura

Spinte e aggressioni fisiche e minacce verbali sono diventate ordinaria amministrazione per oltre metà del personale che lavora nel campo della salute mentale. La percezione del rischio è profondamente peggiorata nel corso degli ultimi e rappresenta uno degli elementi di fuga degli operatori dal servizio sanitario nazionale. Sono numeri ‘pesanti’ quelli che emergono da un’indagine preliminare condotta dal Coordinamento Nazionale dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), presentata oggi in apertura, a Bergamo, del XII congresso nazionale, su 2600 professionisti della salute mentale, di cui 1400 psichiatri: il 49% ha subito violenza (dalla semplice spinta all’aggressione vera e propria) durante il lavoro nel corso degli ultimi due anni (il 27% più di una volta), il 74% ha subito minacce verbali da parte di pazienti durante il lavoro nel corso degli ultimi tre mesi (il 52% più di una volta), il 57% degli psichiatri sente a rischio la propria incolumità sul lavoro. Solo il 7% degli psichiatri rileva un’adeguata tutela per la loro sicurezza (protocolli di sicurezza e collaborazione con le forze dell’ordine). In sintesi, un quadro di grandissima criticità in cui l’evento drammatico della morte della psichiatra Barbara Capovani questa primavera sembra rappresentare solo la punta dell’iceberg e che vede al centro il problema, sempre più difficile da gestire, la presenza di pazienti autori di reato nei dipartimenti di salute mentale inviati dall’autorità giudiziaria.

“Proprio a seguito di quel tragico evento – spiega Emi Bondi, presidente sia del Coordinamento SPDC che della Società Italiana di Psichiatria, oltre che direttore del dipartimento di salute mentale dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo – un gruppo di lavoro della Società Italiana di Psichiatria ha deciso di condurre questa survey sugli operatori della Salute Mentale. Al centro la percezione dell’esposizione alla violenza, la sicurezza sul lavoro in Pronto Soccorso, nei reparti di psichiatria e nelle strutture territoriali. Si è inoltre indagata la percezione di sicurezza sulle tematiche connesse alla diagnosi e alla cura di persone affette da patologia psichiatrica e autrici di reato. I risultati hanno confermato quanto si poteva percepire da tempo: una situazione di costante pericolo per chi lavora. Non solo dentro l’ospedale. Non dimentichiamo, infine, che oggi circa il 30% dei posti nei dipartimenti è occupato da pazienti autori di reato che possono mettere a rischio la sicurezza anche degli altri pazienti”.

“In attesa di effettuare analisi più specifiche ed approfondite dei dati su tutti gli operatori sanitari, che necessiteranno di tempo – aggiunge Giancarlo Cerveri, direttore del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze ASST Lodi e coordinatore dell’indagine – abbiamo l’occasione in questo nostro congresso di confrontarci e di valutare proposte e indicazioni da proporre a chi decide non solo della nostra professione ma, a questo punto, anche della nostra sicurezza e della nostra vita. Tra queste vi sono almeno tre necessità: adeguare il numero di posti letto per acuti che attualmente risultano insufficienti, ai bisogni della popolazione e sono in continuo calo per la chiusura di molte strutture a causa della carenza di operatori; trovare una soluzione legislativa per coniugare il diritto alle cure adeguate per i soggetti autori di reato con patologia psichiatrica e la sicurezza degli operatori, e – infine – creare spazi di ricovero adeguati per rispondere ai bisogni di cura emergenti di pazienti sempre più giovani con problematiche nuove spesso connesse all’uso di sostanze stupefacenti”.

Fonte: askanews.it

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SAPEVI CHE ANCHE LA PELLE PUO’ PARLARE DI DIABETE?

Fino all’80% delle persone con diabete soffre di problemi alla pelle.

Le ragioni sono diverse. La cute umana assolve a diverse funzioni: è importante barriera meccanica e chimica (che ci permette di non essere aggrediti da fattori esterni), ma è anche un organo che esercita funzioni metaboliche, ormonali, termoregolatorie e soprattutto immunologiche.

La cute è l’organo più voluminoso del nostro corpèo e, quindi, estremamente sensibile ai disturbi tipici della malattia diabetica. Il diabete dannneggia direttamante i sistemi cardiovascolare, neurologico e immunitario che interagiscono e si connettono alle funzioni cutanee.

Il paziente diabetico pratica durante l’intero arco della vita svariate e impegnative terapie farmacologiche che possono determinare o accentuare problemi cutanei.

QUALI SONO I DISTURBI DERMATOLOGICI PIU’ COMUN in chi ha il diabete?

SECCHEZZA CUTANEA: XEROSI

La secchezza cutanea (xerosi) è il segno più frequente in chi è affetto da diabete (soprattutto di tipo 2): la pelle è secca e pallida.

Questo disturbo è in parte legato alla riduzione di produzione di sebo che copre la nostra pelle e in parte ad un’alterazione dei vasi sanguigni capillari che non permette alla pelle di ricevere in giusta misura nutrimenti e ossigeno.

Può colpire tutta la superficie cutanea ma è più comune agli arti inferiori.

Avere la pelle secca implica una diminuzione della capacità della cute di fungere da efficace barriera contro l’ambiente esterno.  La secchezza cutanea predispone alla comparsa di altre manifestazioni come prurito, fragilità cutanea, fissurazioni della cute e ruschio di dermatiti da contatto e infezioni

INFEZIONI

Chi è diabetico ha una risposta immunitaria meno efficace che può contribuire all’aumentato rischio di infezioni ricorrenti. Le infezioni batteriche più frequenti sono quelle causate da Stafilococchi e Streptococchi. Le infezioni micotiche più frequenti sono quelle causate da un fungo chiamato Candida. Si ritiene che i diabetici siano particolarmente suscettibili alla Candida perchè l’iperglicemia rappresenta una condizione favorente la colonizzazione da parte di questo microrganismo.

ULCERE E PIEDE DIABETICO

Soprattuttonei pazienti in sovrappeso e di età avanzata, si può avere la comparsa di ulcere in prevalenza ai piedi e alle gambe come conseguenza di traumi anche di lieve entità.

Sempre a carico degli arti infewriori può verificarsi una complicanza molto temuta, il cosidetto piede diabetico.

Il piede diabetico è legato alla neuropatia che colpisce i pazienti con una lunga storia di malattia. Il danno neutologico può provocare insensibilità o perdita della capacità di percepire dolore, cambiamenti di temperatura e postura a livello delle estremità inferiori.

Questa sensibilità alterata fa sì che escoriazioni, tagli, erosioni, ustioni e qualsiasi tipo di evento traumatico passino inosservati per l’assenza di sintomi.

COME GESTIRE I PROBLEMI CUTANEI LEGATI AL DIABETE?

Dal punto di vista dermatologico bisogna effettuare una corretta igiene basata sull’uso di detergenti delicati, che rispettino i valori fisiologici del ph cutaneo. Ma ciò che è fondamentale e indispensabile è preservare la barriera cutanea impedendo/contrastando/riducendo al massimo possibile la scecchezza cutanea.

Una cuta correttamente idratata può impedire microfissurazioni, abrasioni, sensazione di prurito e conseguenti fenomeni che potrebbero lentamente ma progressivamente portare a situazioni più complesse ed impegnative.

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Fragilità ossea: tra gli over 50, 1 donna su 3 è a rischio frattura

Ortopedici SIOT: “Fondamentale la diagnosi precoce”

Nel nostro Paese le fratture da fragilità colpiscono 1 donna su tre e 1 uomo su cinque tra gli over 50enni e, sebbene siano più frequenti tra le persone anziane, si stima che il 20% delle fratture avvenga in età di prepensionamento, come attestano le recenti Linee Guida “Diagnosi, stratificazione del rischio e continuità assistenziale delle Fratture da Fragilità” dell’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con SIOT e altre Società scientifiche.

In occasione della Giornata Mondiale dell’Osteoporosi, la Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, SIOT ribadisce l’importanza della diagnosi precoce per il trattamento dell’osteoporosi e raccomanda visite specialistiche alle donne over 50 e agli uomini dai 65 anni in su per valutare lo stato della propria salute ossea e prevenire la comparsa di fratture.

Come emerge nelle Linee Guida, è stato stimato che le fratture da fragilità siano responsabili di più di 9 milioni di fratture ogni anno in tutto il mondo. Nel 2017, sempre secondo i dati, sono state stimate a livello mondiale 2,7 milioni di nuove fratture da fragilità, equivalenti a 7.332 fratture al giorno, 305 all’ora. Nelle donne si è verificato quasi il doppio delle fratture (66%) e, in generale, le fratture del femore prossimale (collo del femore), delle vertebre e del polso/omero prossimale (spalla) hanno rappresentato rispettivamente il 19,6%, 15,5% e 17,9% di tutte le fratture.

“L’identificazione della fragilità scheletrica – spiega Alberto Momoli, Presidente SIOT e Direttore UOC Ortopedia e Traumatologia Ospedale San Bortolo, Vicenza – è fondamentale per identificare il rischio di frattura del soggetto e applicare interventi terapeutici mirati e prevenire il peggioramento del quadro clinico. Per una valutazione del rischio di fragilità è fondamentale un’accurata anamnesi del paziente utile a identificare ulteriori fattori compromettenti la salute delle ossa: terapie farmacologiche o ulteriori patologie, possono compromettere la resistenza scheletrica peggiorando la fragilità dell’osso con inevitabile aumento del rischio di frattura”. Se la protezione della salute delle ossa inizia sin dall’infanzia con una corretta alimentazione, ricca di calcio e vitamina D e uno stile di vita attivo che comprenda un’adeguata attività fisica, le stesse indicazioni valgono anche da adulti: mantenere una buona densità ossea e prevenire il rischio di fratture soprattutto nell’età considerata più a rischio, in menopausa e post menopausa per le donne e senile per gli uomini. In tarda età un giusto movimento, uno sport aerobico leggero e un allenamento propriocettivo, insieme ad una corretta alimentazione possono intervenire a beneficio della perdita di forza muscolare, ridotta coordinazione dei movimenti e inevitabile rischio di caduta. In Italia, secondo le Linee Guida si stima che la prevalenza dei soggetti con osteoporosi ultra 50enni corrisponda al 23,1% nelle donne – il cui numero è aumentato del 14.3% dal 2010 al 2020 – e al 7,0% negli uomini. “Una corretta valutazione della fragilità ossea attraverso specifici esami del sangue e la mineralometria ossea computerizzata, MOC – prosegue Alberto Momoli – permette quindi di identificare precocemente i soggetti ad alto rischio di sviluppare esiti negativi, consentendo l’implementazione tempestiva di contromisure preventive/terapeutiche. Inoltre, ci sono diverse condizioni, come quelle infiammatorie o il trattamento con farmaci glucocorticoidi, che risultano essere molto importanti nella valutazione della fragilità ossea, in quanto riducono la forza ossea e aumentano il rischio di frattura. Riguardo al trattamento, esistono diverse opzioni terapeutiche efficaci che possono variare a seconda della gravità del caso, dei fattori di rischio e della presenza di altre patologie. È importante rivolgersi sempre a uno specialista, che saprà indicare il trattamento più adatto per ogni singolo individuo”.

Fonte: askanews.it

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Benessere delle ossa

L’osteoporosi è una malattia sistemica dell’apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea. Questa situazione porta a un aumento del rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, omero, ossa del polso e della caviglia) per traumi anche minimi. L’osteoporosi viene distinta in due forme: primaria, che include le varietà post-menopausale e senile, e secondaria, che è dovuta a diverse patologie e all’assunzione di alcuni farmaci nel medio-lungo periodo.

L’incidenza di fratture da fragilità aumenta all’aumentare dell’età, particolarmente nelle donne

Nel corso della vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura di femore, vertebra o polso, in maggioranza dopo i 65 anni.
Si stima che in Italia l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. Secondo i dati ISTAT relativi all’anno 2020, l’8,1% della popolazione italiana (il 13,5% delle femmine e il 2,3% dei maschi) ha dichiarato di essere affetto da osteoporosi, con prevalenza che aumenta progressivamente con l’avanzare dell’età, in particolare nelle donne dopo i 55 anni, fino a raggiungere il 32,2% oltre i 74 anni (il 47% delle femmine e il 10,3% dei maschi).

Le fratture da fragilità per osteoporosi hanno rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali.
La mortalità da frattura del femore è del 5% nel periodo immediatamente successivo all’evento e del 15-25% a un anno. Nel 20% dei casi si ha la perdita definitiva della capacità di camminare autonomamente e solo il 30-40% dei soggetti torna alle condizioni precedenti la frattura.

Lo sviluppo e il mantenimento della massa ossea

Lo scheletro si sviluppa rapidamente durante l’infanzia, la pubertà e l’adolescenza, raggiungendo le sue dimensioni e densità minerale massimali intorno ai 20-25 anni di età (picco di massa ossea). Dopo il raggiungimento del “picco” e sino alla menopausa nella donna e ai 65-70 anni nell’uomo, i processi di rimodellamento dell’osso rimangono in equilibrio, a meno che non siano presenti malattie, condizioni o terapie farmacologiche particolari.
Successivamente il riassorbimento osseo tende a prevalere sulla formazione di nuovo osso e lo scheletro inizia a perdere minerali con conseguente riduzione della massa ossea.
Le caratteristiche genetiche individuali sono importanti in questo processo, ma lo sono altrettanto alcuni fattori di rischio modificabili quali la sedentarietà e la scarsa attività fisica, l’alimentazione non equilibrata povera di calcio e ricca di sale, il consumo rischioso e dannoso di alcol, l’abuso di caffeina, l’eccesso ponderale (sovrappeso e obesità), l’eccessiva magrezza, i disturbi del comportamento alimentare e il tabagismo. Inoltre, le donne hanno, rispetto agli uomini, una minore massa ossea e la riduzione degli ormoni sessuali che si verifica con la menopausa ne determina una più rapida e precoce perdita.
Una crescita ossea non ottimale nelle prime fasi della vita incide negativamente sulla salute dello scheletro quanto la perdita di massa ossea in età più avanzata e pertanto la prevenzione primaria dell’osteoporosi deve iniziare fin dalla prima infanzia.
Per proteggere la salute delle ossa è necessario mantenere un’alimentazione equilibrata e corretta e uno stile di vita sano e attivo.
Per “costruire l’osso” in età pediatrica è molto importante l’assunzione di calcio e vitamina D, ma quantità adeguate di calcio con la dieta sono necessarie anche in età successive, per minimizzare la perdita della massa ossea, in entrambi i sessi. Per la vitamina D, a tutte le età, è importante anche una appropriata esposizione alla luce solare.

Cinque mosse per mantenere le ossa in salute

  1. Adotta e mantieni uno stile di vita attivo, praticando regolarmente un’adeguata attività fisica
  2. Segui un’alimentazione varia ed equilibrata, anche per prevenire l’eccesiva magrezza o il sovrappeso e l’obesità
  3. Assumi adeguate quantità di calcio e vitamina D (per quest’ultima è importante anche una appropriata esposizione alla luce solare)
  4. Diminuisci il consumo di sale (che aumenta l’eliminazione del calcio con l’urina)
  5. Non fumare ed evita o limita il consumo di alcol

 

Fonte: Ministero della Salute

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Tumori: benessere sessuale a rischio per oltre 6 donne su 10

A Pavia evento sul diritto alla sessualità delle pazienti oncologiche

Il benessere sessuale è ancora oggi un argomento tabù in oncologia. Per pudore, i pazienti spesso non ne parlano, eppure l’impatto che un tumore e le terapie hanno sulla sfera intima può essere molto pesante, compromettendo la qualità di vita. Un problema sentito soprattutto dalle donne: oltre 6 su 10, dopo una neoplasia, vanno incontro a qualche forma di “disfunzione sessuale”. In più, mancano linee guida che indirizzino i clinici nella gestione della tossicità legata alle cure. Per affrontare il tema, a pochi giorni dal World Gynecologic Oncology Day, il Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica (Cnao), Fondazione Irccs Policlinico San Matteoe gli Istituti Clinici Scientifici Maugeri Irccs hanno organizzato il 25 settembre l’incontro “Cancro e benessere sessuale”. L’obiettivo è fornire a tutti i professionisti sanitari coinvolti nel percorso di diagnosi, cura e follow up e alle pazienti strumenti idonei a identificare e fronteggiare con successo le possibili problematiche sessuali indotte dai trattamenti oncologici.

“A seguito delle terapie oncologiche, la paziente si trova a relazionarsi con l’immagine di un corpo che visivamente cambia: cicatrici chirurgiche, variazioni di peso, perdita dei capelli, eritemi da radioterapia – spiega Amelia Barcellini, radioterapista oncologo del Cnao -. Esistono, però, anche altri effetti collaterali non visibili: menopausa precoce, infertilità, osteoporosi e ancora sindrome genito-urinaria,alterazione dell’elasticità vaginale, queste ultime condizionanti pesantemente la vita sessuale. Tutto questo si ripercuote inevitabilmente sulla psiche della paziente, sulla vita di coppia e di relazione, spesso alterandone gli equilibri. Pur essendoci strumenti che ci consentono di contrastare alcuni di questi sintomi,oggi la salute sessuale, soprattutto quella femminile, è ancora trascurata in ambito oncologico. Lo scopo del convegno è quello di offrire al personale sanitario gli strumenti idonei a riconoscere e gestire la tossicità sessuale e a superare l’imbarazzo di parlarne con le pazienti. Inoltre, nel pomeriggio sensibilizzeremo le pazienti e i partner sull’importanza di parlarne apertamente con il proprio medico o con il proprio psicologo”.

Dopo la sessione scientifica, associazioni di volontariato e pazienti si sono confrontati in alcune tavole rotonde sul diritto al benessere psico-fisico durante e dopo una diagnosi di cancro, condividendo esperienze e idee per una presa in carico globale della donna con tumore. E’ stato inoltre possibile accedere gratuitamente a sedute di riabilitazione del pavimento pelvico e a colloquipsico-oncologici.

“Occorre abbattere il muro del silenzio. La gestione del problema attraverso team interdisciplinari dedicatiè la chiave per trovare soluzioni personalizzate per lasingola paziente – osserva Chiara Cassani, ginecologo oncologo dell’Irccs Policlinico San Matteo -. Ad esempio, oggi è quasi sempre possibile preservare la fertilità prima dell’inizio dei trattamenti, somministrare farmaci che proteggano le ovaie dagli effetti negativi della chemioterapia, offrire percorsi di riabilitazione prima e dopo i trattamenti chirurgici e radianti, utilizzare terapie locali o sistemiche per contrastare i sintomi legati all’atrofia vaginale e alla menopausa e sostenere le pazienti con l’aiuto di psicologi specializzati e terapisti sessuali. Non tutto però è sempre facilmente accessibile o previsto dai Lea (Livelli Essenziali di Assistenza) ed è fondamentale che la ricerca scientifica lavori per cercare soluzioni sempre più efficaci”.

“Si parla ancora poco nei nostri ambulatori di tossicità sessuale e di quanto le cure oncologiche interferiscano con la vita di coppia delle nostrepazienti – aggiunge Laura Locati, Professore Associato di Oncologia Medica all’Università di Pavia, Direttrice dell’Oncologia Medica presso gli Istituti Clinici Scientifici Maugeri -. La sopravvivenza dei malati oncologici è migliorata nel corso degli anni, per il tumore alla mammella, ad esempio, abbiamo un 88% di sopravviventi a 5 anni in base ai dati Airtum2022 e, se a questo aggiungiamo che il 41% dei nuovi casi di tumore alla mammella si verifica in giovani donne con età inferiore ai 50 anni, è evidente la necessità di una presa in carico multidisciplinare e olistica che accompagni le pazienti durante le cure e al termine delle stesse. La tossicità sessuale legata alle terapie oncologiche può avere un impatto deflagrante nella coppia per cui è importante incominciare a censire il fenomeno, a prevenirlo e ad occuparsene attivamente fin dall’inizio del percorso di cura”

Spazio anche al tema della prevenzione e della salute sessuale in una chiave “arcobaleno”: “Dai dati di letteratura recente – evidenzia ancora Barcellini – sappiamo infatti che i pazient* della comunità Lgbtqia+ lamentano disagio durante le visite cliniche, non sentendosi adeguatamente accolt* dal personale sanitario; pertanto, non accedono spesso ai programmi di screening. Questo può comportare diagnosi tardive di tumore. Inoltre,sulla salute sessuale post terapie oncologiche nella comunità Lgbtqia+ c’è un silenzio ancora più assordante”.

Fonte: askanews.it

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Malattie intestino, attenzione a flora batterica per star bene con gusto

Gli esperti: ecco i cibi “amici delle MICI”

Sì all’olio extravergine d’oliva, alle fibre solubili di frutta e verdura cotte e senza buccia, al pesce e alle carni magre; da evitare i cibi industriali, i fritti e i grassi, i legumi e alcuni conservanti: per prendersi cura della flora batterica intestinale e migliorare sintomi e qualità di vita, chi soffre di malattie infiammatorie croniche intestinali dovrebbe seguire il decalogo messo a punto dagli esperti di AMICI Italia, l’associazione che si occupa dei pazienti e dei loro familiari. Utile il diario alimentare per scoprire i ‘cibi no’, mai eliminare alimenti senza prima essersi consultati con il medico: non rinunciare a una dieta varia, equilibrata e gustosa è importante per gestire al meglio la malattia

Insomma: meglio non ordinare una cotoletta fritta al ristorante, ma perché privarsi di un pesce al forno con le patate? Tanti piatti gourmet possono far parte dell’alimentazione quotidiana di chi soffre di colite ulcerosa o malattia di Crohn, perché avere una malattia infiammatoria cronica intestinale (o MICI) non significa dover rinunciare al gusto a tavola, anzi: la dieta amica dell’intestino può e deve essere varia, bilanciata e buona. Lo hanno sottolineato gli esperti dell’Associazione AMICI Italia in occasione della Terrasini Event Night 2023, evento di beneficienza che unisce scienza e cucina, organizzato dallo chef Giuseppe Costa (ristorante 1 stella Michelin ‘Il Bavaglino’ di Terrasini), insieme ad altri 10 chef che hanno ottenuto la ‘stella verde’ della sostenibilità. L’obiettivo è raccogliere fondi a sostegno dell’Associazione e per dimostrare che perfino la cucina ‘stellata’ può essere adatta alle esigenze nutrizionali dei pazienti con MICI. Dalla frutta e verdura ricca di fibre solubili, meglio se cotta e senza buccia, al pesce e carni magre condite con olio d’oliva a crudo, sono tanti i cibi amici del microbiota, l’insieme dei batteri che popolano l’intestino e la cui salute è fondamentale per i pazienti con MICI: senza sottoporsi a restrizioni alimentari inutili, anche i pazienti possono e devono riscoprire il piacere della tavola.

“L’alimentazione ha un ruolo cruciale nella gestione delle MICI”, spiega Salvo Leone, Direttore Generale di AMICI Italia, “nella colite ulcerosa e malattia di Crohn l’infiammazione cronica dell’intestino comporta sintomi come dolore addominale, diarrea, perdita di peso, fatica: si tratta di malattie trattabili con una combinazione di terapie mediche, cambiamenti nello stile di vita e strategie alimentari adeguate, perciò una valutazione corretta dello stato nutrizionale e un supporto per le corrette indicazioni alimentari sono imprescindibili. Per chi soffre di colite ulcerosa e malattia di Crohn adottare una dieta appropriata può fare la differenza tra il benessere e il disagio: le scelte alimentari possano influenzare direttamente i sintomi e la qualità della vita dei pazienti, che devono essere supportati e orientati per saper scegliere i cibi da preferire o evitare nelle diverse fasi di malattia, durante le riacutizzazioni e nei periodi di remissione. Inoltre l’educazione alimentare è fondamentale per garantire una migliore comprensione delle necessità nutrizionali specifiche dei pazienti con MICI: un piano alimentare ben progettato può spesso favorire il recupero e aiutare a prevenire le carenze nutrizionali purtroppo comuni nei pazienti”. Per aiutarli nelle scelte a tavola, gli esperti hanno raccolto in un decalogo le ‘regole base’ della dieta nelle fasi in cui le MICI non danno sintomi e gli accorgimenti da seguire in caso di riacutizzazioni. Si tratta di indicazioni generali, che devono essere personalizzate dal medico in base alle esigenze specifiche del singolo paziente. Per individuare i cibi ‘sì’ e quelli che invece favoriscono la comparsa dei sintomi, per esempio, gli esperti di AMICI Italia raccomandano a tutti di tenere un diario alimentare così da capire gli alimenti difficili da tollerare e quelli che invece danno benessere, perché possono essere molto diversi fra i vari pazienti e perché senza fare sufficiente attenzione è possibile finire per escludere cibi tutt’altro che pericolosi, costringendosi a seguire diete squilibrate, ripetitive, poco sane e gustose. “Rinunciare a intere categorie di alimenti e privarsi inutilmente di alcuni cibi può provocare carenze nutrizionali e perfino portare a galla veri e propri disturbi del comportamento alimentare”, specifica Maria Cappello, Responsabile dell’Ambulatorio dedicato alle IBD della UOC di Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico di Palermo, “le raccomandazioni dietetiche sono perciò essenziali per i pazienti con MICI, che in assenza di indicazioni chiare spesso adottano restrizioni senza alcun razionale clinico né basate su evidenze scientifiche, frutto del passaparola o di quanto viene letto sul web e sui social, esponendosi a molti rischi. Le indicazioni devono essere personalizzate e modulate in relazione alla fase di malattia, attiva o in remissione, complicata o no, senza dimenticare che l’alimentazione è anche convivialità, piacere della tavola. È importante che i pazienti non perdano questo aspetto del nutrirsi”.

Fonte: askanews.it

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Peccati di dieta

È chiamata “sugar craving” ed è quella voglia irrefrenabile di dolci che prende all’improvviso. A causarla è un basso livello di serotonina, la molecola che nel nostro organismo aiuta a regolare, oltre al sonno, anche l’umore e le emozioni.
Non è un caso se, quando siamo arrabbiati, tristi, depressi o nervosi, cerchiamo conforto nel cioccolato. E’ uno degli alimenti più ricchi di triptofano, l’aminoacido a partire dal quale il nostro organismo sintetizza la serotonina, cioè l’ormone del buonumore. Il guaio è che, il più delle volte, la gratificazione che ne ricaviamo innesca un circolo vizioso che spinge a mangiarne ancora di più con tutte le conseguenze che ne derivano, prima fra tutte l’aumento di peso. Da qui il consiglio di fare regolarmente attività fisica, per favorire il rilascio della serotonina, di bere più acqua, perché spesso confondiamo la sete con la fame e, per soddisfare il palato, di preferire il cioccolato fondente. Per tenere a bada la voglia compulsiva di dolce possono essere utili anche alcune sostanze naturali come la Griffonia, un arbusto dell’Africa centrale i cui semi sono ricchissimi di 5-HTP idrossitriptofano, un aminoacido naturale precursore della serotonina.